Gaia Gionchetti, il senso di ospitalità dalla Sardegna a Shanghai | Olianas

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Gaia Gionchetti, il senso di ospitalità dalla Sardegna a Shanghai
a cura di Jessica Cani
Nata il 6 giugno 1980 a Cagliari, Gaia Gionchetti cresce con una vita divisa in due stagioni: sei mesi a studiare nel capoluogo, sei mesi a lavorare a Porto Cervo. È una crescita fatta di valigie, cambi di scenario e identità sovrapposte: la ragazza che studia sui libri in città e che, d’estate, entra per lavoro nei negozi e ristoranti, imparando a osservare le persone, i desideri e i consumi.
Per un periodo è convinta che il suo futuro sia nella moda. Lavora in boutique come Cristina T, Dolce & Gabbana e altre insegne del lusso. Le piace l’estetica, il ritmo, l’idea di stare sulla soglia fra prodotto e cliente ma la cucina continua a chiamarla, da dietro le quinte delle case di famiglia.
Le sue radici gastronomiche nascono nelle cucine delle donne della sua famiglia: nonne, zie, sorelle di nonna tutte signorine, minute, instancabili, «alcune alte forse un metro e cinquanta, con il 33-34 di piede», eppure capaci di tenere insieme generazioni intere. La Gionchetti le ricorda al mercato di San Benedetto, col carrello parcheggiato fuori prima dell’apertura, o i tavoli che diventavano laboratori di cucina sarda, ma non solo, con pasta violada tirata a mano, pane coccoi col lardo, olive nere messe ad asciugare nei balconi di Via Sonnino. «Per me la cucina è sacra ed è così da sempre».
L’altra parte della famiglia è fatta di commercianti e artigiani. «Quando nasci in una famiglia di commercianti è difficile che tu riesca a fare bene altro nella vita», dice ridendo. «Il commerciale ce l’hai nel sangue». Il commercio, però, non è solo vendere: è iniziativa, rischio, capacità di leggere chi hai davanti. Da bambina osserva lo zio che apre circoli e locali, tra Via San Lucifero e Via Abba a Cagliari: posti senza menu appeso fuori, dove il piatto del giorno si decideva al mercato, fra ostriche, plateau royal e piatti che arrivavano in Sardegna grazie a un ponte continuo con la Francia.
È in questo incrocio fra commercio e cibo che nasce la figura di cui oggi rivendica l’identità: una consulente gastronomica con una fortissima base commerciale e un’idea molto precisa di cosa significhi ospitalità.

Dopo la laurea, Gionchetti continua a formarsi in modo mirato: corso AIS tra Cagliari e Milano, un percorso di pasticceria salata, il corso per la somministrazione di alimenti e bevande. Parallelamente non smette mai di lavorare: stagioni nei negozi di Porto Cervo, anni di catering a Cagliari con un’amica (lei sul salato, l’altra sui dolci), eventi privati, feste per bambini.
Poi arriva il passaggio al mondo degli eventi strutturati: per un’azienda francese di packaging segue fiere enogastronomiche in giro per l’Italia, da Bologna a Milano, fino al Sigep di Rimini. È qui che comincia a muoversi stabilmente tra cuochi, pasticceri, brand e tavole importanti, allenando lo sguardo su come si costruisce un’esperienza gastronomica completa.
Quando Luciano Guidi la chiama per lavorare al Phi Beach accanto a Giancarlo Morelli, in Costa Smeralda, quel mosaico di esperienze è già lì. La Gionchetti entra come assistente alla direzione della ristorazione: segue la cassa, gestisce fornitori, divise, relazioni con lo staff e con gli ospiti. Collabora all’organizzazione del Phi Gourmet, un festival che richiama alcuni dei più importanti chef stellati italiani. «Al Phi Beach ho fissato competenze che avevo già, ma non sapevo di avere», racconta.
«Un giorno mi è stato detto chiaramente: “Tu devi stare col cliente”. Non me ne accorgevo, ma il mio posto era lì, nel rapporto col pubblico».
È il momento in cui qualcuno, dall’esterno, conferma quello che lei aveva sentito a istinto per anni: la sua forza sta nella capacità di tenere insieme numeri, organizzazione e relazione.
Phi Beach è la sintesi di una vita già vissuta fra Porto Cervo e i grandi eventi, ma con un livello di consapevolezza nuovo: da lì in poi la Gionchetti smette di vedersi solo come “cameriera evoluta” e comincia a ragionare in termini di direzione, gestione, visione. Porto Cervo: oltre il cliché del lusso
Su Porto Cervo, non ha mezze misure.
«Porto Cervo è la mia anima, il mio respiro», dice. «Mi dà quasi fastidio dirlo, perché il nome crea subito l’effetto sbagliato. Non è la località da copertina che si vede d’estate. Per me è un luogo affettivo. Appena arrivo a Portisco abbasso il finestrino e respiro la macchia mediterranea. Nove volte su dieci piango: all’arrivo e quando vado via. Ci vado da quando sono nata perché i miei zii vivevano lì, e ancora di più dal 1987, quando mio padre ha aperto il suo primo negozio lì. Io non vedevo l’ora di partire da Cagliari per tornare a Porto Cervo, mai il contrario. Porto Cervo non è lo specchio della Sardegna, come Milano non lo è di tutta l’Italia. È Gallura, è Sardegna, ma filtrata da uno sguardo internazionale, da economie che non sono per tutti.
Spero che la gente smetta di vivere i luoghi in funzione di quello che devono rappresentare. Vai dove ti piace andare, mangia dove ti piace mangiare, ma non trasformare ogni scelta in una performance» dice.

Quando entra nel mondo Da Vittorio a Brusaporto, la Gionchetti vive a due velocità. All’alba è dietro una scrivania in palestra, a fare la segretaria per garantirsi un’entrata fissa. Poi chiude il computer, si cambia pelle e si tuffa negli eventi: matrimoni, cene aziendali, banchetti privati, serate in cui ogni dettaglio deve funzionare come un meccanismo di precisione.
Affina l’arte del pensare a un evento dall’inizio alla fine, partire dalla telefonata del cliente e arrivare al momento in cui la sala era sparecchiata. Ascoltare la richiesta, incrociarla con la realtà tecnica ed economica, costruire menù, ritmi, passaggi di servizio, tenere insieme fornitori, cucina e sala senza che nessuno se ne accorga: è lì che affina la regia. Sono anni che le insegnano disciplina, visione e resistenza, lavorando a un progetto in cui il suo coinvolgimento emotivo è totale. E proprio in quel contesto, a contatto con l’alta ristorazione più codificata, matura la consapevolezza che il servizio può diventare una liturgia omologata, un copione perfetto ma vuoto, oppure può restare un gesto vivo di relazione. Lei è allergica alla prima versione.
«Il problema è quando il servizio diventa protocollo, quando sembra che tutti stiano recitando la stessa parte, ovunque nel mondo», dice. «Non è accoglienza dire le stesse frasi, nello stesso modo, a clienti completamente diversi».
Al contrario, difende una visione di ospitalità cucita addosso alle persone. Diffida dei format che replicano a catena un certo tipo di linguaggio, sorriso, esperienza rassicurante, ma lontana dalla realtà del territorio e del lavoro che c’è dietro. È qui che comincia a interrogarsi seriamente su un altro tema che le sta a cuore: il rapporto fra marketing e qualità, ed è qui che sente crescere il bisogno di prendere un suo spazio per esprimersi in contesti più ampi e internazionali.

La scelta di lasciare l’Italia e spostare il baricentro della sua vita a Shanghai non è un colpo di testa, ma una somma di desideri. Da una parte c’è quello di respirare il mondo; dall’altra l’incontro con Stefano Bacchelli, chef e oggi collaborare e marito, con un pensiero che diventa sempre più chiaro: avere un progetto davvero loro.
Prima arrivano i viaggi, i sopralluoghi, qualche stagione. La Cina è già sullo sfondo prima del Covid: un orizzonte possibile, più che un sogno esotico. Poi arriva la decisione vera: trasferirsi. Due settimane di quarantena in albergo, chiusa in una stanza, diventano paradossalmente il primo vero riposo dopo anni.
«In quarantena ho dormito», racconta. «Dormito davvero. Era come se il corpo avesse aspettato quel momento per spegnersi e ricaricarsi.»
L’impatto con Shanghai non ha niente del racconto drammatico sullo shock culturale. «La Cina l’ho presa in maniera soft», dice. «Non avevo più quella fretta che mi ha caratterizzato da ragazzina. Ho perso la fretta, finalmente. Mi ha aiutato tanto la psicoterapia. E Stefano, ovviamente.»
I primi anni in Cina lavora come consulente gastronomica in esclusiva per una villa storica in città, occupandosi di pubbliche relazioni, banqueting, eventi, menù, ospiti internazionali. È un laboratorio continuo in cui mette a sistema tutto ciò che ha imparato sino a quel momento: gestione, regia, relazione, visione, a cui sono seguiti tanti ricordi meravigliosi, come la cena privata per la visita del Presidente Sergio Mattarella ad Hangzhou.
La svolta vera però è innanzitutto caratteriale e non nasce solo da scelte professionali lucide, ma anche da due periodi orrendi, come li definisce lei, che l’hanno costretta a fermarsi e a guardarsi in faccia. «La psicoterapia mi ha cambiato la vita e il modo di guardarla. Quelle sedute sono diventate un luogo di confronto. Serve qualcuno che non ti conosca e con cui non si abbiano legami, che possa dirti le cose come stanno». C’è un post-it che le resta in testa per anni. Gliel’ha scritto il terapeuta: “A volte è bello non fare un cazzo”. All’inizio è solo una frase appuntata sullo specchio; poi arriva il lockdown italiano e quella frase diventa realtà forzata. La psicoterapia diventa il punto di vista esterno che la aiuta a rimettere in asse le cose quando il ritmo del lavoro rischia di travolgere tutto il resto.

Nella biografia di Gaia Gionchetti che passa per Porto Cervo, Phi Beach, grandi gruppi internazionali e Shanghai, il tema del prezzo non è un dettaglio: è una domanda continua. Quanto vale davvero un’esperienza gastronomica? Per lei la differenza fra caro e costoso è sostanziale.
Un posto può essere costoso perché dietro c’è lavoro vero: persone formate e pagate dignitosamente, ricerca, materie prime selezionate, tempo dedicato alla progettazione di un menù, di un servizio, di una sala. È un “caro” che racconta un valore, non solo un conto.
Caro è un’altra storia: è quando il prezzo è gonfiato dall’immagine, dal racconto patinato, da un’idea di lusso che non si traduce in qualità reale né nel piatto, né nel servizio, né nell’esperienza complessiva. «Il marketing gastronomico è potentissimo e mi affascina da sempre», dice. «Ma il marketing raramente va di pari passo con la qualità». L’esperienza fra ristoranti blasonati, destinazioni di lusso, guide e classifiche le ha lasciato in eredità una posizione molto chiara sul tema del marketing.
«Liste e guide sono strumenti utili, ma non possono essere libri di storia», dice. Difende il diritto di ognuno a costruirsi il proprio gusto, a scegliere i posti in cui si sta bene, a preferire una trattoria sgangherata a un tre stelle impeccabile, se quello è il luogo in cui ci si sente a casa.
«Dire “a mio gusto, io preferisco…” apre uno spazio di dialogo», spiega. «Dire “si mangia bene solo lì” lo chiude».
Un locale che comunica benissimo ma tratta male i fornitori, sottopaga il personale, usa materia prima mediocre e si nasconde dietro al format non è per lei un modello. «Il racconto deve poggiare su qualcosa di vero», dice. «Se la filiera, la materia prima o le condizioni di lavoro non sono all’altezza, nessun copy, nessuna foto e nessun reel potranno trasformare quella cosa in qualità. Potranno solo mascherarla, per un po’».
È da questo incrocio, fra gusto personale, responsabilità, lavoro e verità che nasce il suo modo di essere consulente gastronomica: qualcuno che non si limita a rendere bella un’esperienza, ma che prova a renderla sensata, sostenibile e giusta, per chi la vive e per chi la costruisce.

Oggi la Gionchetti vive e lavora a Shanghai, dove la sua consulenza gastronomica si è incarnata in tre corpi: Scilla, Madre e Cina Gastronomica.
Nel 2023 il suo compagno Stefano Bacchelli ha aperto Scilla, ristorante mediterraneo ospitato in una villa del 1930. L’atmosfera è quella di un casual dining caldo e accogliente, dietro cui c’è un’ossessione per il dettaglio che sfiora la mania: dai blocchi pass e cottura blu mediterraneo della Marrone, ai bicchieri di vetro colorato che riprendono i colori delle ceramiche al marmo con i puntini celesti, alla scala di legno il cui colore ritorna nel bordo dei piatti Franco Fasano.
«Come consulente gastronomico, ho supportato l’azienda nella scelta di diversi elementi caratterizzanti, come i piatti pugliesi, il pantone e le grafiche», racconta. «Quando vedo tutto insieme mi emoziono ancora».
Nel 2024, accanto a Scilla, Bacchelli apre Madre, “bar italiano col forno”: una dichiarazione d’intenti prima ancora che un’insegna. È il luogo che replica il gesto più quotidiano dell’Italia: il caffè al bancone, il cornetto al volo, la pausa pranzo veloce, la merenda con i bambini, trasportato nel cuore di Shanghai senza fargli perdere identità.
Attorno a Scilla e Madre prende oggi forma Cina Gastronomica: il contenitore che tiene insieme tutto il resto. È qui che confluiscono le consulenze per ristoranti, chef e progetti enogastronomici, i food trip per italiani in Cina e per cinesi in Italia, e i progetti di scambio culturale e gastronomico fra Mediterraneo e mondo cinese. Il primo capitolo si è aperto a fine novembre con una settimana full immersione a Shanghai con due cene a quattro mani tra gli chef Stefano Bacchelli e Mattia Pecis del ristorante Cracco Portofino, e presentato alla stampa locale con il supporto del Consolato Italiano a Shanghai durante la Settimana della cucina Italiana nel mondo.
Cina Gastronomica è la parte più mobile del suo lavoro: quella che costruisce ponti, itinerari,
relazioni. Ospitalità è la parola che riassume tutto.
Per lei è una costellazione di gesti, spesso invisibili: invitare qualcuno a casa propria anche se lo conosce poco, pensare al percorso del cliente già dal primo contatto, litigare per avere “bar italiano col forno” scritto per intero e rigorosamente in italiano, perché le parole sono parte dell’esperienza e dell’identità di un luogo, passare ore a infilare nastri e cartoncini nelle confezioni dei panettoni, perché chi li riceve percepisca che sono incartati a mano, uno a uno.
L’ospitalità, in questa prospettiva, non è servizio subordinato allo chef, ma un’arte autonoma: la capacità di creare uno spazio in cui gli altri possano esistere interi, non solo come clienti da gestire.

Parlare di sostenibilità in Asia significa accettare la complessità. Le distanze sono enormi, la logistica è feroce, la frutta arriva spesso doppiamente confezionata, molti prodotti percorrono migliaia di chilometri.
«Saremmo falsi a dire che la sostenibilità sia facile in Asia», ammette. «Usiamo solo alta qualità, dove possiamo italiana e dove ha senso cinese. Siamo i primi a essere felici quando troviamo un ingrediente locale buono, non “buono per me”, ma con alta resa, buona struttura, tenuta in cottura»
Per la parte panificata e da forno, usano farine italiane selezionate. Allo stesso tempo lavorano materie prime cinesi di altissima qualità, come la vescica natatoria (fish maw), inserendole in ricette che dialogano con la tradizione italiana, per esempio in un risotto alla milanese.
È una sostenibilità fatta di compromessi, scelte, aggiustamenti continui, più che di slogan.
Poi c’è un altro livello di sostenibilità, forse ancora più delicato: quello della vita. La Gionchetti ha scelto di non lavorare più in esclusiva per un solo cliente. Niente più disponibilità totale senza margini, niente più identità professionale legata a un’unica realtà. «Lavoro e vita privata per me coincidono», dice. «Ma proprio per questo devo stare attenta. Non posso più lavorare per una persona sola così da poter scegliere i progetti e navigarci all’interno, rischiando così il burn out».
La sostenibilità, qui, significa avere il diritto di dire sì e no, di darsi un perimetro, di smettere di sacrificare tutto in nome di un unico nome sulla porta. Significa poter continuare a fare il proprio mestiere, l’ospitalità, senza smettere di essere una persona intera.

La Sardegna resta un punto fisso, emotivo e concreto. Gaia Gionchetti ci torna una o due volte l’anno, molto meno di quanto vorrebbe. Le mancano i colori, i profumi, le persone a cui tiene con cui condividere anche i successi.
Quando rientra, ci sono tappe obbligate che le rimettono a posto: il chiosco del Pevero da Davide, dove si alza dal lettino, mangia e torna a sdraiarsi; Mallica e la colazione da Elite a Cagliari, con quelle pizzette che “mangerebbe a centinaia”. Sono piccoli rituali, ma tengono aperto il filo.
«Vorrei poter fare sei mesi a Shanghai d’inverno e sei mesi a Porto Cervo d’estate. A lavorare, non in vacanza. Ma il sogno vero è avere un posto nostro in Gallura, portando a Shanghai gli italiani e là i cinesi, in un dialogo culturale e gastronomico continuo».
In fondo, tutto il suo lavoro va in quella direzione: costruire ponti fra luoghi, persone, culture. Tenere insieme Porto Cervo, Cagliari, Milano, Parigi e Shanghai dentro un’unica idea di ospitalità, rigorosa e appassionata, in cui il cibo non è mai solo un piatto, ma un modo di stare al mondo.
