Vite e la rete di professionisti che sta lavorando da e per la Sardegna | Olianas

Un anno di Vite

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Vite e la rete di professionisti che sta lavorando da e per la Sardegna

a cura di Jessica Cani

Sabato 24 maggio, Vite - il nostro progetto di narrazione territoriale - è diventato un evento, spostando dall’online all’offline la rete di persone di valore che raccontiamo. Con Jessica Cani, ideatrice del progetto, e insieme a Federico Esu di Nodi, abbiamo convocato professionisti, imprenditori e creativi, ma soprattutto abitanti della Sardegna: persone che hanno scelto di non limitarsi a transitare per l'isola, ma di radicarsi in essa, di conoscerla dal di dentro e di lavorare creando valore per il territorio.

Un pomeriggio con ospiti che hanno potuto raccontare la loro storia lavorativa e creare scambio e condivisione, rivelando qualcosa di più profondo di sole ambizioni economiche: la necessità di restare per comprendere davvero. Ogni voce, pur provenendo da settori diversi, ha mostrato la consapevolezza che non si può valorizzare ciò che non si abita veramente, che l'innovazione autentica nasce solo dal rapporto quotidiano e intimo con i luoghi e con le persone che ne fanno parte.

Quello che è emerso non è un manifesto di orgoglio locale né una dichiarazione di intenti, ma la dimostrazione che in Sardegna esiste una generazione di professionisti che ha scelto consapevolmente di trasformare le difficoltà del territorio in vantaggi competitivi. Dal vino all'innovazione tecnologica, dall'architettura all'economia circolare, ogni storia raccontata ha confermato che l'isola funziona quando chi ci lavora la abita davvero, quando la conosce abbastanza da rispettarne i limiti e sfruttarne le potenzialità uniche.

La sostenibilità di cui hanno parlato i viticoltori non è una certificazione da appendere in cantina, ma la condizione stessa per continuare a produrre vino che abbia senso economico e identità riconoscibile. I progetti di ritorno e innovazione non sono fughe romantiche dalla modernità, ma scommesse imprenditoriali su un territorio che offre laboratori naturali, costi di sviluppo contenuti, comunità disposte ad accogliere chi porta competenze e visione.

Vite e Nodi non sono solo piattaforme di comunicazione e networking ma presidi di una nuova geografia economica e culturale, dove la rete nasce dalla prossimità fisica e la competitività dalla capacità di essere unici. Il Mediterraneo non è più il limite dell'isola ma la sua dimensione naturale di mercato, e la Sardegna non è più periferia ma centro di progetti che sanno essere insieme locali e internazionali.

Il primo panel: la sostenibilità e il mondo del vino

Sono intervenuti:

Giorgia Colleoni, Mussura - Seneghe (Barigadu)
Valentina Saccu, Podere 45 - Sassari (Nurra)
Alessandro Mazzone, Animas - Loiri Porto San Paolo (Gallura)
Antonio Marras, Fradiles vitivinicola - Atzara (Mandrolisai)
Enrico Esu, Cantina Enrico Esu - Carbonia (Sulcis)

Ha moderato Cristian Ravai, Tenuta Olianas - Gergei (Sarcidano)

La conversazione, nata per mettere alla prova idee e bilanci di piccole cantine, ha rivelato come, per i piccoli produttori vitivinicoli in Sardegna, la sostenibilità non corra parallela al business, ma coincida con la possibilità stessa di fare impresa senza rinunciare a un’appartenenza profonda.

Dalla cooperativa di Mussura ai terreni molto diversi ma a pochi km dal mare dei fratelli Mazzone e di Podere 45, dalle pendici del Mandrolisai di Fradiles alle terre aride del Sulcis di Enrico Esu, è emerso subito come per chi fa piccole produzioni la sostenibilità non sia uno slogan ma una pratica quotidiana di equilibrio tra condizioni ambientali, gestione aziendale e sviluppo territoriale.

L’aria salmastra che conserva l’acidità delle uve, ad esempio, non è un dettaglio romantico: è una voce e, se la ignoriamo, il vino smette di essere nostro e diventa replicabile ovunque. L'erba mantenuta tra i filari per conservare l'umidità, le vendemmie anticipate per adattarsi alle nuove temperature estive, le radici profonde di viti sessantenni che attingono riserve idriche naturali: ogni scelta tecnica mostra come l'ambiente stabilisca i parametri e come l'economia funzioni solo quando li rispetta.

Per i produttori, la sostenibilità ambientale non regge senza quella sociale. Ogni contratto trasformato da volontariato a lavoro stabile, ogni ragazzo trattenuto o rientrato, ha il peso di un investimento in infrastrutture, perché in un piccolo paese del Mandrolisai una giovane enologa porta competenze, trattiene reddito, rinnova il racconto stesso del luogo. In un mercato del vino saturo di etichette green, questo impegno umano diventa elemento competitivo perché restituisce la legittimità di un prezzo equo.

Volontari stabilizzati come dipendenti, giovani trattenuti in territori altrimenti destinati allo spopolamento, micro-aziende che accorciano la filiera per garantire margini diretti ai produttori: tutto questo è parte di una sostenibilità sociale.

Ma la sostenibilità deve necessariamente essere anche economica perché un’azienda esista e resista: investimenti calibrati – stazioni meteorologiche, sistemi di irrigazione mirati, comunicazione digitale – che ottimizzano i costi di produzione, vini che si affermano sul mercato per caratteristiche distintive piuttosto che per competizione sui prezzi.

Ed è anche culturale: la comprensione che l'innovazione tecnologica serve solo se genera occupazione qualificata, che il marketing più efficace è un prodotto che esprime chiaramente la mineralità del granito o la concentrazione di un Carignano modellato dal maestrale.

L'elemento di attrazione più forte rimane la prospettiva di un lavoro che non impone di scegliere tra appartenenza territoriale e crescita professionale. Il principio che accomuna tutte le esperienze presentate è operativo: la sostenibilità non è uno stato da certificare, ma significa adeguare, includere, investire, raccontare. Questo esercizio non è un vezzo ecologista: è la condizione minima per restare competitivi, per passare competenze ai giovani senza costringerli a emigrare e per continuare a imbottigliare un territorio prima ancora di un vino. Funziona quando le sue componenti ambientali, sociali ed economiche si integrano come elementi di un sistema coerente.

In Sardegna, questo equilibrio non rappresenta un'opzione desiderabile ma una condizione necessaria per mantenere la produzione viticola competitiva, trasferire competenze alle nuove generazioni e conservare l'identità produttiva del territorio.

Il secondo panel: imprenditoria, radici e ritorno

Sono intervenuti:

Claudia Pala, Abbistos
Maria Giovanna Carta, Mannos
Matteo Pala, Segni di terroir
Enrico Porceddu, Aurora coworking
Matteo Buccoli, architetto
Mariangela Melino, Relicta
Andrea Piras, Società Agricola Pi 'n' Pi
Matteo Poddighe, Alkelux
Samuel Lai, Sinnos Formaggi

Hanno moderato Jessica Cani (ideatrice di Vite e consulente di comunicazione enogastronomica) e Federico Esu (Nodi community)

Il secondo panel ha portato una conversazione che ha mescolato ritorno in Sardegna ed economia circolare in un'unica narrazione potente: l'isola come territorio di possibilità concrete, non di nostalgie consolatorie. Claudia Pala ha portato la sua storia di biologa marina che dopo dodici anni in Germania è tornata a Bitti per fondare una startup che incrocia monitoraggio marino e tecnologie spaziali. Non è tornata per mancanza di alternative ma per la visione di una Sardegna come laboratorio naturale e i figli che possano crescere accanto ai nonni, l'equilibrio che solo chi ha girato il mondo sa riconoscere e valutare. Maria Giovanna Carta ha proseguito raccontando come attraverso il suo progetto Mannos rimetta al centro le relazioni attraverso l'adozione di piante e la valorizzazione di microproduzioni, storie che precedono e accompagnano formaggi e mieli: non marketing emozionale ma strategia di sopravvivenza, perché quando sei piccolo devi essere indimenticabile.

Matteo Pala rappresenta la generazione che si racconta attraverso i social: tornato nel 2020, ha piantato un ettaro di vigna a Bitti e racconta in tempo reale potature, grandinate, vendemmie con l'intuizione semplice che se non puoi competere sul prezzo devi competere sulla storia, far innamorare il pubblico di un progetto micro trasformandolo da prodotto a esperienza condivisa. Con Enrico Porceddu il discorso si è spostato a Iglesias, dove ha aperto Aurora Coworking e un'accademia digitale partendo dalla convinzione che dove non c'è nulla sia più facile costruire senza competizione né pregiudizi, con la sua ricetta fatta di perseveranza, generosità, eventi gratuiti, aperitivi inclusivi - accogliere prima di fatturare, investire in comunità prima che in business plan. Marco Buccoli, già ospite della newsletter n°8 di Vite, ha portato il punto di vista dell'architetto spiegando che innovare significhi aiutare i clienti a riconoscere la propria identità invece di copiare, perché in un mondo saturo di immagini clonate la vera sfida è avere il coraggio di progettare spazi che parlino una lingua unica, irripetibile.

Il biotech sardo ha mostrato il volto più inaspettato attraverso Mariangela Melino di Relicta e Matteo Poddighe di Arkerux, con le loro bioplastiche idrosolubili dagli scarti del pesce e i film attivi dalla liquirizia per prolungare la conservazione degli alimenti, entrambi nati all'Università di Sassari come dimostrazione che l'ateneo possa essere vivaio di talenti quando esce dai laboratori e scommette sull'impresa reale. Andrea Piras ha raccontato i suoi funghi coltivati su cellulosa di scarto e trasformati in micro-greens e vermicompost, mentre Samuel Lai, anche lui ospite della newsletter n° 4 di Vite, ha descritto corsi di cucina, caseificio a latte crudo, social come amplificatori di autenticità - progetti diversi ma con la stessa filosofia: creare valore senza tradire l'identità del territorio.

Tutti hanno ammesso le difficoltà quotidiane, come burocrazia paralizzante, diffidenza del mercato, isolamento delle aree interne, ma hanno condiviso anche un sentimento più forte: la rivalsa intelligente di chi vuole dimostrare che in Sardegna si può crescere senza snaturarsi. Dal confronto è emersa la geografia delle connessioni fatta di università che forniscono competenze, coworking che mettono in rete, podcast che amplificano esempi virtuosi, famiglie che offrono radici e sicurezza emotiva. Nessuno ha nascosto la fatica, ma tutti hanno sottolineato la differenza fondamentale: scegliere di restare o tornare perché qui si sta bene, perché l'isola è un mercato piccolo ma un Mediterraneo immenso, perché dove manca tanto si può ancora inventare tanto. L'idea che la Sardegna rappresenti opportunità e non ripiego ha preso forma concreta nelle storie raccontate, nei prodotti mostrati, nei progetti che chiedono solo di trovare altri nodi per crescere insieme - non retorica dell'orgoglio locale, ma pragmatismo di chi ha scelto di scommettere su un territorio difficile perché convinto delle sue potenzialità uniche.

Cosa significa fare rete: creare Nodi e dare valore alle Vite professionali

Quello che unisce tutte queste esperienze è il rifiuto della contrapposizione sterile tra tradizione e innovazione, tra radici e crescita, tra appartenenza e ambizione professionale. Chi ha parlato sabatoha dimostrato che si può scegliere la Sardegna non per nostalgia ma per opportunità, non per ripiego ma per progetto. Il vero cambiamento parte dallo smettere di raccontare l'isola come un luogo in cui costruire, crescere e creare valore attraverso la condivisione e la creazione di reti.

La sfida è trasformare questa rete di esperienze in un modello replicabile, dimostrare che quello che l'arte dell'abitare può diventare strategia di sviluppo per tutto il territorio. Perché alla fine, quello che abbiamo sentito sabato non era il racconto di casi eccezionali, ma l'anticipazione di quello che la Sardegna può diventare quando smette di subire la propria geografia e inizia a progettarla.

Le immagini nella pagina sono presenti per gentile concessione di Roberto Satta.