Teresa Galanti: la chef che con Aurea racconta la sua visione del mare | Olianas

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Teresa Galanti: la chef che con Aurea racconta la sua visione del mare

a cura di Jessica Cani

Il mare è una voce che Teresa Galanti ha ascoltato da sempre. Nata a Castelsardo in una famiglia di pescatori, cresciuta dai nonni tra conserve di pomodoro e barattoli di pesce azzurro sotto sale, ha imparato presto che dare è un gesto naturale.
Oggi, lo fa attraverso il cibo.
“Io sono una persona poco fisica, ma cucinare è il mio modo di amare. È così che mi hanno cresciuta: se venivi a casa di mia nonna, non te ne andavi mai senza un pezzo di formaggio buono o una bottiglia d’olio di nostra produzione.”

A maggio 2025, a Cagliari, apre Aurea, un progetto condiviso con Luna Püz Olivares – pasticcera e compagna di vita – Cilena, in Sardegna da dieci anni. Sei posti al banco, una carta che cambia spesso, una degustazione che è più racconto che menu. Questo è Aurea: un luogo dove Teresa cucina per restituire.“La cucina è il mio rifugio, il mio punto di equilibrio cerebrale. È lì che trovo la mia serenità. Se smetto di creare, mi perdo.”

Il nome Aurea nasce da una notte d’insonnia, dopo un film su Caravaggio. Teresa pensa alla sezione aurea di Fibonacci, alla bellezza naturale e imperfetta che si ripete nei cavoli, nei nautilus, nelle onde. “Tutto quello che amo è lì: nell’equilibrio spontaneo delle cose. In una spirale. In una conchiglia. In un disegno che non è mai forzato.”

Aurea suona femminile, e al tempo stesso contiene una visione. Il sottotitolo osteria contemporanea racconta l’altra metà di Teresa: quella popolare, diretta, viva. “Per me lo chef deve tornare a essere oste. Non c’è più la divisa: c’è l’accoglienza. C’è il salotto buono della nonna, dove ti siedi e ti lasciano mangiare con generosità.”

Cucina rock e spirito gentile: chi è Teresa Galanti, l’anima di Aurea

La cucina è entrata nella vita di Teresa Galanti in punta di piedi, senza più uscire. Era ancora un’adolescente quando comincia a dare una mano in un ristorante con l’impostazione dura della vecchia scuola: turni infiniti, rigore, pochi sorrisi. “Pulivo il pesce, osservavo i cuochi. Mi incantavo. E a un certo punto ho pensato: ma io lo posso fare. Cioè, quello che loro stanno facendo… io lo so fare”.

In realtà studiava tutt’altro. Sognava di diventare fumettista, e aveva anche qualche porta già socchiusa in quel mondo. Ma la cucina continuava a chiamarla. Quando una collega le propone di fare qualche extra anche d’inverno, accetta.
La stagione successiva è suo fratello a proporle un’occasione: lavora come bartender a Porto Cervo e le dice “C’è un posto da lavapiatti”. Teresa rifiuta. Non per arroganza, ma per consapevolezza. “Sentivo di poter dare di più”.

Parla con lo chef del locale. Lui la osserva, le dice: “Secondo me diventerai una brava chef. Tu fai cose che neanche gli chef con anni di esperienza fanno. Disegni i piatti, li scomponi, prendi appunti. Sei curiosa. E la curiosità non si insegna”.

Poi, succede l’imprevisto: lo chef ha un’urgenza familiare e le chiede di sostituirlo. “Mi sono chiusa in cucina. Ho studiato. Ho fatto il mio. Se fosse andata male, pazienza. Ma almeno ci avevo provato”. Aveva poco più di diciannove anni. Eppure, regge il servizio in uno dei locali più noti della Costa Smeralda. Lo chef non torna. E la proprietà decide di affidare a lei la cucina. 
Da lì, non si è più fermata.

“Ho capito che la cucina era quello che cercavo davvero. L’arte la amerò sempre, ma in cucina mi sento viva. Quando cucino, entro in uno stato quasi ermetico. In quel piatto, in quel gesto, trovo pace”.

Ma la sua non è solo memoria e tecnica. È visione. È tensione creativa.
Uno spirito rock che, dal 2013, ha scelto di esprimersi anche attraverso la cucina vegetale.
“Da quando sono vegetariana, il vegetale è diventato parte essenziale della mia identità. Non è una rinuncia, è una tavolozza bianca. Dove altri vedono limiti, io vedo un’esplosione di possibilità”.

Nei suoi piatti non esiste il concetto di “alternativa”. Nessuna insalata triste per chi non mangia carne. “Trovo inaccettabile che un ospite con scelte etiche si senta il meno considerato del tavolo. La cucina è cultura. E cultura significa conoscere ciò che abbiamo sotto i piedi – o sotto il mare”.

Il mare come cordone ombelicale

Per Teresa, il mare è radice viva, terra liquida, cordone ombelicale che la tiene legata all’isola. “Per me il mare è famiglia, è ispirazione, è gratitudine. Il mare è ciò che mi ha formata, nutrita, cresciuta”.

Madre comandante di barca, padre marinaio: due vite spese sull’acqua, tra porti, stagioni e sacrifici che hanno avvicinato Teresa alla cucina grazie agli insegnamenti di sua nonna. “Cucinavo da piccola per rendere felici i miei genitori. Tornavano stanchi e io volevo che trovassero qualcosa di buono”.

A casa Galanti, cucinare non era solo nutrire: era prendersi cura del tempo e del mondo. La nonna Antonietta cucinava per la famiglia e per il vicinato, mentre il nonno Gavino tornava con le mani segnate dal sale e tante storie da condividere con la sua nipotina. “Mi hanno insegnato a dare, sempre. Io sono l’assemblaggio delle loro emozioni”.

In quella casa si praticava una sostenibilità integrale. Si raccoglieva quello che la campagna offriva, si metteva via ciò che il mare donava. “Quello che c’era, era ciò che finiva nel piatto. Senza retorica, senza etichette. Era solo il nostro modo di vivere perché era la regola del buon senso. Oggi la chiamiamo sostenibilità ma per me è un modo di essere, non una moda. Sento usare la parola ovunque, ma spesso è un’etichetta. Per me è DNA. Non posso cucinare un ingrediente se non è il suo momento e il mio menu cambia continuamente perché io stessa sono cambiamento.” Quella cultura del tempo, della materia, del limite, è ancora oggi la spina dorsale del suo lavoro. L’ha assorbito dai racconti di un nonno marinaio, romantico e pieno di cura, che le ha insegnato il rispetto per il mare. E da una famiglia di pescatori che, pur nella semplicità del mestiere, cercava
già allora di salvaguardare, di non sprecare, di non abusare.

“Vivere la vita in modo appassionato mi è stato trasmesso da loro. La poesia di mio nonno, l’amore per la cucina di Antonietta, il senso del dovere e della bellezza che mi hanno lasciato”. Il mare ritorna sempre, nei suoi piatti, nei ricordi, nei gesti. “Cucinare il mare è come cucinare me stessa. È riconoscenza, è identità”.

Di Teresa colpisce la dualità armoniosa con cui si racconta: ha il passo quieto di chi è riservata, eppure la voce salda di chi sa da dove viene. C’è fierezza nelle sue parole, ma mai compiacimento. Parla della propria storia con orgoglio autentico. Conosce se stessa a fondo, e si sente — si vede — che ciò che fa è prima di tutto una scelta di identità. Eppure tutto questo lo restituisce con semplicità, con quell’umiltà propria di chi ha respirato fatica e amore fin da bambina, seduta in cucina accanto ai nonni, mentre il mondo fuori era fatto di sale, vento e attese. Nell’ascoltarla, le dico che la sua storia mi ricorda un po’ la mia: la sua profuma di salsedine, la mia di terra.

Per Teresa, il mare è territorio. È Nord Sardegna, è famiglia, è infanzia. È la seggiolina bassa accanto ai nonni, per salare le acciughe. È la murena, "il maialino del mare", che era convivialità e bellezza. È la memoria delle lenticchie stufate con l’aragosta su un fornello di barca, cucinate da pescatori greci amici di famiglia.

La cucina, per lei, è contaminazione, nata da un’infanzia vissuta tra ponti, porti e dialetti del Mediterraneo. Nella sua casa si sedevano greci, amalfitani, siciliani: si parlava il linguaggio del mare, si scambiavano gesti e ricette. È cresciuta in una famiglia che navigava e accoglieva, che cucinava con ciò che c’era e con chi c’era.
Ed è anche per questo che rifiuta con fermezza l’immagine di una Sardegna gastronomicamente appiattita. Il mare, se lo conosci davvero, è orizzonte aperto.“Mi arrabbio quando mi dicono che il turista vuole il maialetto o i malloreddus. No, è quello che abbiamo deciso di propinargli noi perché è più facile. Perché pulire un pesce spinoso richiede più tempo e cura”.

La cucina di Aurea

Aurea è un progetto che nasce dal desiderio profondo di Teresa Galanti di restituire. Restituire tutto ciò che ha ricevuto: dalle mani dei suoi nonni, dal mare, dalle cucine dove ha imparato a osare. Apre nel maggio del 2025 insieme alla pasticcera Luna Püz Olivares, Cilena ma da dieci anni in Italia, e grazie alla visione di Stefano Fois – patron della trattoria giapponese Gaijin – che ha deciso di investire «in una persona in cui ha visto talento e visione».

Aurea è un luogo accogliente e diretto, dove ci si può fermare a pranzo o a cena, scegliendo dal menu oppure affidandosi al percorso a sorpresa. È proprio la degustazione a mano libera che ho scelto, e che Teresa cambia spesso, seguendo le stagioni e l’ispirazione del momento. Tra i piatti, un lattume di ricciola con limone arrosto e olio al finocchietto, morbido e profondo, o una chips di murena croccante, quasi da mordere come fosse cotenna. Straordinaria anche la rana pescatrice fritta, appoggiata su un pomodoro lavorato in agliata, acidulato con aceto ai capperi e accompagnato da un pomodoro lattofermentato che ne amplifica l’eco marina.

Uno dei piatti manifesto di Teresa è Marè: spaghetti cotti in un’essenza di mare (estrazione di flora e fauna rocciosa), con salicornia agrumata e peretta di Perfugas. Nessun sale, solo sapidità naturale e contrasti calibrati.

L’attesa del dolce non è stata delusa. Amo i finali, e sapevo che Luna Püz Olivares è una delle menti più brillanti del panorama regionale. Il suo dessert alla cicoria e carruba – con caffè di cicoria, caramello, mascarpone – racconta un tempo in cui la carruba era il "cacao dei poveri". Un ingrediente umile, sostenibile, radicato.

Galanti e Püz Olivares portano avanti la loro piccola rivoluzione con una visione chiara e determinata. Ogni piatto è un atto di resistenza, un gesto di coerenza. «A volte mi dicono che sono fuori moda. Va bene così. Preferisco essere una chef vintage», dice Teresa, e sorride.
Con loro, in sala, ci sono Rachele e Francesca, mentre in cucina Guido contribuisce a dare forma a
un progetto fresco, urgente, necessario. Una cucina che non si accontenta di essere buona. Ma
che vuole farci pensare.