Claudio Melis: dall’istinto al rigore, viaggio di uno chef barbaricino nel mondo | Olianas

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Claudio Melis: dall’istinto al rigore, viaggio di uno chef barbaricino nel mondo
a cura di Jessica Cani
La storia di Claudio Melis, chef stellato originario di Gadoni, potrebbe sembrare il frutto del destino. In realtà è la somma di dedizione e perseveranza. Negli anni ’80, Melis oscillava nella decisione di quale strada professionale intraprendere, senza un vero entusiasmo per nessuna delle scuole accanto al suo paese natale. «Alle medie ero già annoiato, non mi interessava davvero nulla di quei percorsi. Cercavo qualcosa di diverso», racconta.
La svolta arriva per caso: una comunicazione al parroco del paese segnalava la ricerca di nuovi iscritti per la scuola alberghiera di Sassari. Claudio prende in mano il telefono, chiama e chiede un posto. «Mi dissero: puoi scegliere tra cucina, sala-bar o ricevimento. Ho quasi scelto a caso e ho detto cucina. Senza sapere bene a cosa stessi andando incontro».
All’inizio non c’era un piano preciso, ma una curiosità crescente a ogni stagione, a ogni esperienza. «Gadoni mi stava stretto, sentivo che il mondo era altrove, che avevo bisogno di muovermi, di vedere cosa succedeva fuori».

Le prime stagioni sono tra Porto Rotondo e Porto Cervo, al fianco dei professori della scuola di Sassari. Sono anni di apprendistato fondamentali. Lavorare nei mesi estivi in Sardegna, negli anni ’80 e ’90, significava trovarsi nel cuore di un laboratorio gastronomico che guardava all’Europa: clienti internazionali, cucine strutturate, ritmo incessante.
Il punto di svolta arriva all’inizio degli anni ’90, quando conosce un pasticcere francese che aveva lavorato con Gualtiero Marchesi a Milano. «Una notte, dopo il servizio, mi portò a provare la cucina di Marchesi. Ricordo ancora quella degustazione: uscimmo all’una di notte e io correvo per l’emozione. Mi dissi: se devo continuare a fare questo lavoro, allora lo voglio fare così».
Da quell’incontro nasce una consapevolezza nuova: la cucina non è più soltanto un mestiere, ma una disciplina che richiede studio, dedizione e sacrificio. Melis parte per la Francia, spinto dalla voglia di imparare da chi quella strada la stava tracciando. È il primo vero salto di qualità, l’inizio di un percorso internazionale che lo porterà a lavorare con grandi maestri e a confrontarsi con cucine stimolanti, capaci di guardare lontano.
Gli anni ’90 scorrono così, tra esperienze in Italia e all’estero: San Marino, Parma, la Germania, la Spagna. A soli 24 anni entra in una cucina stellata, a Parma: un banco di prova difficile e formativo. Poi arriva la montagna, le Dolomiti, dove aveva fatto una stagione giovanissimo e dove torna con uno sguardo diverso, innamorandosi di quei paesaggi che diventeranno parte della sua vita. «Quando sono arrivato a Madonna di Campiglio, ho capito che lì potevo restare. Mi sono innamorato della montagna, del suo ritmo, della sua durezza».

Ma il viaggio non si ferma. Nel 2010 parte per l’estero: Arabia Saudita, Antigua, Dubai. Anni intensi, in cui la cucina si intreccia con il management e con una visione sempre più ampia del mondo della ristorazione. «All’estero ho imparato a diventare non solo cuoco, ma anche manager. A gestire strutture complesse, a guardare la ristorazione come un sistema fatto di persone, di organizzazione, di visione. È stata una scuola durissima ma fondamentale».
Eppure, dietro ogni nuova esperienza, resta la stessa tensione che lo aveva spinto a lasciare Gadoni: la voglia di scoprire, crescere e non fermarsi mai. Ogni tappa diventa un tassello di un mosaico che, col tempo, prende forma sempre più nitida.
Oggi quel mosaico vive a Merano, dove Melis ha deciso di fermarsi insieme alla moglie, portando due realtà complementari all’interno dell’Hotel Irma: “In Viaggio”, il ristorante stellato che rappresenta la sua idea più radicale e personale, e Tree Brasserie, più quotidiana ma altrettanto curata.
Se si guarda indietro, la traiettoria sembra avere una sua logica inevitabile. Ma Melis lo ripete più volte: è stata una somma di incontri, intuizioni e scelte istintive. «Tutto il mio percorso si è basato sugli incontri. Senza quelli, probabilmente non sarei qui».

Dietro il lungo viaggio di Claudio Melis, resta un filo che lega il tutto: il gusto. È la sua ossessione e direzione. «Per me buono non è abbastanza. Deve essere eccellente, deve andare più a fondo».
Questa ricerca inizia sempre dall’ingrediente. Non dall’idea astratta, non dal concetto, ma dalla materia prima, selezionata con un’attenzione quasi maniacale. «L’ingrediente deve essere di altissimo livello. Non vuol dire che debba essere nobile o raro: vuol dire che deve essere il migliore possibile». Una volta trovato, l’ingrediente viene trattato riducendo al minimo le manipolazioni. Il risultato sono piatti nitidi, leggibili, immediati.
Melis non crede in una cucina cerebrale, fatta per stupire a tutti i costi. «Se l’ospite deve scervellarsi per capire cosa ha davanti, allora ho sbagliato tutto. La cucina è un linguaggio universale: deve arrivare chiara, diretta, comprensibile. Non deve essere banale, ma dev’essere accessibile. E accessibile non significa economica, significa che tutti devono poter coglierne il messaggio».
Con questo approccio ha costruito In Viaggio, il suo ristorante stellato a Merano. Qui tutto è pensato come un percorso: il nome non è casuale, ogni piatto rappresenta una tappa, una suggestione, un frammento di esperienza. «Ho voluto creare un ristorante in cui il viaggio fosse reale e metaforico. Non ci sono piatti fissi, ogni stagione diventa un cammino diverso. È come un itinerario: ogni portata è una stazione, ogni dettaglio racconta un passaggio».
La scelta di lavorare esclusivamente con materie prime regionali è parte integrante di questa filosofia. In Viaggio è un laboratorio che unisce rigore e identità. «Non troverete ingredienti esotici nei miei piatti. Solo prodotti regionali, in gran parte dal Triveneto, e comunque italiani. La sfida è dimostrare che non serve andare lontano per creare profondità e complessità di gusto. Basta saper guardare vicino».
Poi c’è Tree Brasserie, un progetto complementare e allo stesso tempo coerente con la visione dello chef. Qui il tono è più leggero, quotidiano, pop, come lo definisce lui. «Tree Brasserie è un luogo dove puoi venire ogni giorno, dove la cucina è fresca, dinamica, accessibile. Non è una cucina minore: è diversa».
Due anime che si completano, costruite con la stessa cura, perché per Melis non esistono scale di valori nella qualità: esiste solo l’onestà del piatto e la coerenza con la sua funzione.
Dietro questa apparente semplicità, c’è in realtà un lavoro costante e ossessivo. Melis lo dice senza esitazioni: «La cucina per me non è mai stata solo un mestiere. È diventata un modo di vivere. Rigore, disciplina, ricerca continua: non puoi spegnere un interruttore quando esci dalla cucina. È una forma mentis che ti accompagna sempre».

Claudio Melis alla Sardegna è sempre stato molto legato, anche nei periodi in cui l’isola sembrava lontana, quasi irrilevante nelle sue scelte professionali. È un legame fatto di carattere, di sapori, di un’attitudine che lo chef riconosce come parte di sé.
Eppure, per quanto radicato, questo legame non si è mai tradotto in un ritorno professionale stabile. Dopo le prime stagioni in Costa Smeralda, la sua carriera ha preso direzioni internazionali, e la Sardegna è rimasta uno sfondo familiare ma non il centro della scena. «La nostra terra mi è sempre rimasta nel cuore, ma per anni l’ho vista come un contesto difficile per costruire un percorso solido. Ho sempre ragionato sul lungo periodo e l’isola mi appariva limitata, con una stagione che dura pochi mesi e troppe difficoltà per lavorare con continuità».
Il giudizio di Melis non è liquidatorio, ma nasce da una consapevolezza lucida e sofferta. «Manca ancora la mentalità imprenditoriale. Noi sardi, spesso, siamo più pronti ad aiutare chi viene da fuori che i nostri stessi conterranei. È un atteggiamento che ci penalizza, che ci impedisce di crescere davvero insieme».
Dell’isola, nelle sue parole emerge anche l’altra faccia: la Sardegna come terra di possibilità immense, ancora non del tutto espresse. «Abbiamo materie prime straordinarie, paesaggi che non hanno eguali, un’identità fortissima. La sfida è imparare a sostenerci di più tra noi, a costruire progetti che non si fermino dopo un’estate ma che durino nel tempo».
Il suo sguardo si fa più nitido quando racconta le differenze tra le zone dell’isola: Cagliari come città dinamica, con una scena gastronomica in crescita; Sassari più lenta, chiusa; la Costa Smeralda come vetrina internazionale, dove però i protagonisti sono spesso grandi gruppi stranieri. «In Sardegna vedi i marchi più blasonati del mondo aprire locali e hotel, ma poi ti chiedi: cosa rimane ai sardi? Qual è il guadagno per noi, oltre al paesaggio che prestiamo?».

Melis non nasconde una certa amarezza: «Nel progetto di Aga Khan quella non era probabilmente nemmeno la visione originale. Porto Cervo, per esempio, era stata pensata in modo molto più integrato al territorio, con architetture rispettose, case incastonate nelle rocce, quasi invisibili dall’alto. Era un progetto visionario per quegli anni. Poi, col tempo, le logiche del business hanno preso il sopravvento e abbiamo finito per svendere parte di quel patrimonio».
Non mancano, però, esempi virtuosi: ristoranti che resistono, strutture che hanno saputo costruire un’identità forte e duratura. Ma per Melis la sfida resta aperta. «Abbiamo bisogno di crederci di più, di sostenerci a vicenda. I capitali esterni sono importanti, certo, ma senza un tessuto locale che tenga, cosa ci rimane davvero?».
In questa riflessione c’è tutto il rapporto complesso tra lo chef e la sua terra. Un rapporto che non si traduce in presenza fisica costante, ma che riaffiora nei piatti, nel rigore, nell’idea che “buono non basti mai”. «La Sardegna è casa mia. Anche quando non ci vivo, resta dentro di me. Il carattere che mi ha formato è quello: ostinato, rigoroso, capace di andare a fondo. È quello che mi ha permesso di diventare quello che sono».

Quando gli chiedo quali siano i luoghi che più ama frequentare in Sardegna, Claudio Melis non ha esitazioni. Il suo sguardo resta sempre quello di un professionista abituato a misurare valore e visione, e i suoi riferimenti diventano, inevitabilmente, consigli di viaggio.
«Luigi Pomata, per me, resta un grande punto di riferimento a Cagliari», dice senza tentennare. Non solo per la cucina, ma anche per l’idea più ampia di ristorazione. «È stato un precursore. Ha portato uno sguardo internazionale quando ancora in pochi lo avevano, e ha saputo raccontare Cagliari come meta gastronomica. Non si è limitato a guardare al porto e alle navi da crociera, ma ha costruito un pensiero più ampio».
Accanto ai nomi, ci sono i luoghi. Melis invita a guardare oltre la costa, verso l’interno. «Paesi come Gadoni, il mio, o tanti altri dell’entroterra, hanno potenzialità incredibili. Paesaggi unici, silenzio, autenticità: sono tesori ancora poco valorizzati. Non bastano da soli, certo, ma possono diventare parte di un’offerta che dura tutto l’anno».
La storia di Claudio Melis mostra come il rigore sia la vera bussola di un percorso duraturo. Non ci sono scorciatoie: la cucina, come ogni mestiere che ambisce a lasciare un segno, richiede dedizione costante e disciplina. Il legame con una terra, come la Sardegna in questo caso, è responsabilità: riconoscere le sue potenzialità e le sue fragilità, e imparare a sostenerle con visione. In questo, Melis è netto: la qualità non è mai un compromesso, e la crescita non può prescindere da una comunità che crede in se stessa.
